ALBUME® convivial art project | special guest Roberto Limonta
Ici [isi], avv., qui, qua.
I.c.i. Imposta Comunale Immobili
In stabile con ascensore, luminoso trilocale di 70 mq. (soppalcabili all’infinito), quotidianamente destrutturato e ristrutturato, composto da ingresso, soggiorno uso cucina, camera, bagno e umanità variabile. Ampia vista sul mondo dell’arte contemporanea.
Ingresso
Ab ovo: così i latini designavano l’inizio remoto di qualcosa, fosse esso un racconto, una narrazione storica, un mito o un ragionamento filosofico sulla genesi del cosmo. Ab ovo, “dall’uovo” appunto: la perifrasi è efficace nel suo fare delle ristrettissime dimensioni dell’uovo la misura del mondo intero, come se solo l’estrema concentrazione dell’essenza rendesse possibile l’esplosione cosmogonica, l’atto creativo di una genesi. L’espressione è presente nelle Satire di Orazio anche in una forma più ampia, che si fa apprezzare per il rimarcato accento sulla dimensione “domestica” dell’origine e sul simbolismo archetipo dell’uovo, che qui ci sono particolarmente cari: Ab ovo usque ad mala, “dall’uovo alla mela”, noi diremmo dall’antipasto al dolce. Insomma, anche se le nostre filosofie si deliziano il palato con la decadente raffinatezza di un vocabolario fatto di archetipi ed apocalissi, palingenesi, noumeni ed anamorfosi, alla fine siamo sempre fra le quattro mura del salotto di casa. Oikoumene: in greco è la “terra abitata”, il “mondo”; tuttavia l’etimologia ci fa intravedere che questo afflato cosmologico non è il superamento o la negazione dello spazio a misura d’uomo della quotidianità, quanto la sua sublimazione, perché il termine oikoumene è estensione del più dimesso e casereccio oikos, ovvero “casa”, “abitazione”. Ciò che chiamiamo universo è la proiezione dell’uomo all’esterno di sé ma sempre lungo le linee guida e le misure familiari del nostro spazio domestico, e, dall’altra parte, è sempre nella dimensione antropomorfica della casa che ci ritroviamo a pensare e a catalogare le questioni fondamentali della nostra esistenza.
Soggiorno
Lo spazio della casa può essere pensato secondo categorie molto distanti tra loro, ma non è detto che quelle più vicine all’astrazione concettuale o all’enfasi estetica siano le sole ad avere diritto di cittadinanza. Il linguaggio del franchising immobiliare, a proposito, chiama la casa “immobile”, “stabile”, e nel farlo pone l’accento, in maniera interessata ma non per questo meno azzeccata, sul radicamento come essenza dello spazio abitativo, sul suo convinto antinomadismo, su quel ruolo di rifugio e di oasi protetta che ne fa una dimensione “altra” rispetto all’esposizione nei confronti del mondo cui ogni uomo è quotidianamente costretto. Casa significa spazio della custodia e della continuità, del consueto come rassicurazione, del calore e della giusta misura. Ma appagarsi di questa soglia significa condannarsi a scorgere della casa solo un lato, uno scorcio, e perdere di vista l’essenziale, quella tensione dialettica tra spinta centripeta e centrifuga, introiezione ed estroversione, quel dialogo tutto interno all’essenza della casa che non sa a quale vocazione cedere, custodia o apertura, essere o divenire. Proviamo allora a ribaltare i termini del problema e ad immaginare la casa come luogo in cui l’io, invece di trovare un mondo, lo perda. Ad esempio, se riflettiamo su quale sia la privazione di cui soffre chi è agli arresti domiciliari, ci rendiamo conto che non è l’impossibilità di abitare il mondo, limite e dolore del carcerato, ma la riduzione della propria casa a prigione e con esso lo stravolgimento, esistenzialmente devastante, del suo significato simbolico. La casa, da luogo di rielaborazione e proiezione del mondo, da “simbolo” ovvero ponte tra io e mondo, diventa piuttosto la sua negazione e il suo limite, il limite del mio mondo; la tensione all’esistenza da centrifuga si fa ossessivamente centripeta, rimbalza tra le pareti domestiche e ritorna all’io vuota di senso, testimoniando così la perdita del valore simbolico di quelle mura e di ciò che esse contengono. Lo spazio è sempre lo stesso ed ogni cosa è al suo posto: è la casa come tale che ora non c’è più. Non si comprende il mondo se non lo riconduciamo ab ovo, come ci hanno insegnato gli antichi, ma è anche vero che il senso dell’ovo, della casa, non è pensabile senza il suo pendant dialettico, il mondo. Il progetto ALBUME rappresenta una scommessa sulla possibilità di riattivare quel senso nascosto della casa come luogo dell’origine: l’uovo, del quale l’albume è la densa essenza, è origine di vita, concentrato di sostanza, di futuri possibili, di percorsi da costruire e da esplorare. Nei lavori che ALBUME ha ospitato la dimensione domestica è stata di volta in volta madeleine di percorsi esistenziali, proiezione spaziale del corpo dell’artista oppure diaframma mobile, sensibile al respiro di chi lo viveva e lo abitava; la casa ha saputo farsi macrocosmo del microcosmo umano, riproducendo con la sua articolazione in locali il legame organico e la simbiosi delle parti del corpo, ma anche diventare microcosmo, all’inverso, nel momento in cui è stato il corpo dell’artista a diventare casa, ad articolarsi in soggiorni e cucine, a viversi come spazio della memoria e dei gesti che si depositano sul corpo come quelle fotografie sbiadite che monumentalizzano il soggiorno in pesanti cornici d’argento. Fili, intrecci, orditi, ragnatele: sono queste le immagini che ricorrono come un leitmotiv nelle parole degli artisti che sono stati, negli anni, il progetto ALBUME. Intrecci eterogenei: tra io e casa e tra io e mondo, tra opera e spazio espositivo, tra i locali, tra casa e mondo e tra corpo e mondo, tra le “case” che nello stesso luogo fisico si sono succedute, modulate in maniera di volta in volta diversa dall’intervento degli artisti. Ciò ha significato in alcuni casi una ridefinizione degli spazi, anche radicale; altre volte si è trattato di evidenziare percorsi di senso latenti nei locali, in altri casi il gesto banale del disporre le opere a parete si è colorato di sensi inconsueti in uno spazio domestico dove quel gesto costringeva a ridefinire la parete stessa, che non era più muro portante o diaframma tra cucina e bagno ma diventava ostensione di senso, cornice di un gioco simbolico che trasfigurando la materialità di quei muri ne riscopriva la pregnanza esistenziale e quasi la possibilità di un riscatto estetico dalla funzionalità del quotidiano.
Camera
La camera è il luogo dell’intimità, dove l’uomo si piega su sé stesso (camera dalla radice sanscrita –cam, “essere curvo, piegarsi”), quasi a custodire la propria identità. L’arte invece è la dimensione della visione pubblica: l’opera è per definizione ostensione della forma ad un pubblico, è nella sua essenza forma visibile e vista. Cosa produce l’urto, l’ossimoro del loro incontro? Quale forma, quali strane morfologie può assumere nello spazio la contraddizione logica di una camera pubblica? Rivoltata come un guanto, scagliata dall’interno all’esterno, denudata e percorsa da mani frenetiche, la casa esige dall’artista, se non delle nozze riparatrici, quantomeno delle buone scuse. Se però invertiamo i termini del rapporto tra spazio e arte, lo scandalo di questa profanazione si smorza e la contrapposizione si rivela più apparente che reale. Lo spazio non è una preda che si offra alle manipolazioni dell’arte come a truppe d’occupazione, una sorta di sostrato neutro, un mero supporto materiale sul quale l’arte compie le proprie evoluzioni; come tra abitazione e mondo, il rapporto anche in questo caso non può che essere dialettico. Se la casa con i suoi spazi, i colori e gli oggetti che la riempiono, può essere intesa come il condensato delle nostre trame esistenziali, quasi deposito sul fondo decantato dagli anni, l’arte ha il compito, rispetto a questo gomitolo d’esistenza, di dipanarne i fili, di mostrarne le articolazioni, le giunture, di scorgerne le possibilità inespresse, le linee di sviluppo, le occasioni mancate. Una valorizzazione degli spazi che non è lavoro per Proloco e operatori turistici ma per un’arte che sappia, appunto, portare alla luce ciò che “vale”, ovvero, etimologicamente, ciò che sta saldo, quel fondo stabile dell’essere che l’arte, quando vuole, sa mettere in forma. ALBUME, più che uno spazio per l’arte, è un’arte per costruire lo spazio.
Bagno
ALBUME, a pensarci bene, si muove sul filo sottile del paradosso, giocando pericolosamente con la negazione del concetto di casa. L’essenza di un’abitazione è il tempo, così come l’azione essenziale che le dà forma è la sedimentazione. Cambiamo colori alle pareti, aggiungiamo mobili e spostiamo piante e tappeti, ma l’identità della casa, la sua singolare consonanza fisiognomica con chi la abita le danno quelle tracce di noi che, lo vogliamo o meno, vi si sedimentano. Una lenta stratificazione che parla di capricci e ricordi, progetti abortiti e sogni realizzati, oblii e oscillazioni varie del gusto estetico. ALBUME invece nasce come volontà di fare della casa il luogo di una perenne destrutturazione, un’eterna apocatastasi con annessa cosmogenesi, un periodico farsi e disfarsi dello spazio, quasi che l’essenza della casa, dell’”immobile”, fosse la propria ironica autoconfutazione. Ma definire lo spazio, dargli forma, farlo e disfarlo, abbandonandosi ai variopinti idiomi con cui quello si lascia tradurre; questi sono tutti esercizi per capire, per comprendere la trama (ecco che ritorna l’immagine del filo, dell’intreccio) di cui è fatta l’esistenza che quello spazio innerva. Non c’è un’ortodossia nel progetto ALBUME, ma l’idea dello spazio come tolleranza ed equivalenza delle soluzioni: l’eresia come regola, eresia che si nega come scarto, come dislocazione rispetto alla norma, come infrazione della regola, l’eresia che della regola fa gioco per rivelarsi come unica regola possibile.
Roberto Limonta
Nato a Monza, si è laureato in Estetica presso l’Università Statale di Milano. Docente di filosofia ed estetica presso il Liceo Artistico di Monza, collabora a cataloghi e riviste d’arte contemporanea.